Cristina Donadio: “essere” attrice e non “fare” l’attrice
di Luciana Pennino
La Bellezza salverà Napoli: interviste a napoletani, per nascita o per scelta, che producono Bellezza
Attendo Cristina Donadio seduta al tavolino di un bar in zona Chiaia, un occhio alla strada e un occhio all’orologio, perché il tempo passa e di lei nulla. Ecco che la vedo avvicinarsi, con un cappello verde a falde larghe e gli occhiali da sole. Quando toglie l’uno e gli altri, vengono fuori i capelli corti scompigliati da ragazzina birichina e gli occhi da gatta. La sua voce vellutata, e lo sguardo verde che mi magnetizza, accompagnano un racconto sincero e tenero.
«È stato in modi vari e in tempi diversi che ho capito che la mia vocazione fosse quella dell’attrice. A fare lo show, ho iniziato sin da bambina, quando saltavo sul tavolo della cucina di mio nonno in cambio della 500 lire. Lo facevamo tutti noi nipoti ma io ero quella che non voleva più scendere. Mia madre raccontava le storie a noi sei figli, cinque sorelle e un fratello, con la voce più dolce che abbia mai sentito nella mia vita, tale fino al suo ultimo giorno. Mio padre, invece, un grande affabulatore, ci raccontava qualcosa che era una via di mezzo tra Il libro della giungla, Tarzan e il frutto della sua fantasia; e io la interpretavo, e di volta in volta ero capace di esser Mowgli o la tigre o il serpente cattivo o il papà o la mamma del bambino, e forse è allora che mi è venuto in mente che avrei potuto essere attrice.
Nei primi dieci anni di carriera, un attore mediamente è cretino, perché si fa scivolare addosso tutto quello che invece dovrebbe entrargli nei pori, forse per narcisismo o per irriflessività o anche per giovane età, vedendo solo l’esteriorità di questo mestiere. E per dieci anni per me è stato così… o recitavo a teatro o al cinema era tutto uguale: non ero, ma facevo, verbo che poi ho bandito dalla mia vita di attrice. Facevo un personaggio o un altro, mi sono permessa di accettare e, dopo un mese di set, di dire di no a Fellini, preferendogli l’opera prima di uno sconosciuto; ero arrogante, stupida e superficiale. E poi è arrivato il primo danno vero della mia vita: la perdita di mio marito Stefano (l’attore Stefano Tosi, ndr), finito, giovanissimo, per un incidente d’auto, insieme ad Annibale Ruccello. Proprio questo evento, però, ha fatto sì che nascesse la conoscenza con Enzo Moscato e con lui ho iniziato a vivere la mia seconda vita di attrice, quella in cui ho capito che fare questo mestiere è molto doloroso, e pericoloso, perché ti mette in contatto con la parte più nascosta di te. E più scendi verso i tuoi demoni, più trovi porte chiuse da aprire e cose da scoprire, e se non lo fai, perdi il senso vero di questo mestiere. Quindi, finalmente, sono crollate tutte le sovrastrutture dei primi dieci anni ed è rimasta un’anima aperta a tutto: ho iniziato, allora, a essere invece che a fare.»
Il ragazzo del bar ci interrompe per sapere cosa gradiamo e mi intenerisce vedere la sua aria compiaciuta nell’anticipare il desiderio di Cristina per la sua ordinazione. È una cliente abituale e lui le si è affezionato, forse anche perché è Scianel di Gomorra, la fortunatissima serie TV.
«Non so come sarebbe stata Scianel se io non fossi stata un’attrice di teatro però, quando mi hanno presentato il contenitore, il simulacro di questa donna, che io dovevo animare, mi sono rapportata a lei come se fosse un archetipo del male, ovvero un grande personaggio della tragedia greca o shakespeariana, Clitennestra o Lady Macbeth, e mai l’ho pensata come camorrista. Questo probabilmente vien fuori proprio dagli insegnamenti che ho ricevuto dal teatro: gli archetipi ci danno il senso della vita in tutte le sue sfumature.
Osservando questo simulacro, sono andata a scavare nei miei demoni, perché sapevo che il male è più affascinante del bene e che i personaggi neri hanno una luce speciale che li rende imbattibili. E Scianel era un personaggio altamente noir, orrendo, pieno di contraddizioni: ho recuperato le mie paure, le mie debolezze, le mie fragilità, ho preso a piene mani dal vissuto, dall’immaginario, dal guardaroba della mia mente, ho aperto i cassetti delle parole, gli scaffali pieni di gesti e di sguardi e ho messo tutto insieme. Prima un lavoro di ricerca e poi di selezione, perché solo la sottrazione mi avrebbe portato al risultato migliore. Scianel aveva bisogno di poche parole: essendo una giocatrice di poker, doveva guardare molto e giocare con le carte degli altri piuttosto che con le sue; era furba e con il solo obiettivo del potere. Insomma, ho avuto tra le mani un personaggio meraviglioso, con la libertà totale di renderlo nel modo che volessi. E infine, quando tutto era pronto, un piccolissimo frammento della mia anima è andato a finire in Scianel, mio malgrado e in maniera inconsapevole: un valore aggiunto, però, che ha reso Scianel così amata. Sì, perché al netto dell’orrore, tutti vorrebbero un’amica come Scianel, per la simpatia, la follia, la generosità che le sono proprie.
E adesso sono tali e tanti i dettagli che questo personaggio mi ha lasciato, che ho dovuto allargare il guardaroba della mente per creare un reparto dedicato, dove andrò ad attingere in futuro.»
«Sei cambiata dopo tanta popolarità?»
«No, sono rimasta l’attrice che ero prima. Non ho avuto bisogno dell’ampia notorietà per capire quanto sia profondo il teatro o il cinema, come non è stata necessaria per confermare la mia coerenza rispetto alle scelte passate e a quanto avessi già costruito. Anzi, “Guai a te, Cristina!”, come avrebbe detto mia nonna, se l’improvviso riconoscimento mi avesse fatto cambiare. Quello che invece è mutato è lo sguardo dello spettatore su di me. L’enorme, smisurato pubblico di Gomorra ha cominciato a seguirmi anche a teatro; ricordo, per esempio, a Torino, in occasione de Le Baccanti di Euripide, con la regia di Andrea De Rosa, insieme a Lino Musella, ‘O nano (un altro personaggio della serie Gomorra, ndr), tanta gente, mai avvicinatasi al teatro, è venuta a vederci pensando di trovare Scianel e ‘O nano e dicendo poi “Che bello, quello a cui abbiamo assistito!”.»
Ma il cammino di Cristina con Scianel è anche il cammino di Cristina, di Scianel e del tumore…
«Dopo pochi mesi dall’inizio delle riprese, mi sono accorta di avere un tumore al seno: ho taciuto perché non volevo togliere nulla a Scianel. Mi sono potuta permettere la fragilità perché mi riparava Scianel. Il suo essere untouchable mi consentiva di tornare a casa e mettermi in un angolo a piangere, com’era normale che fosse. Perché il giorno in cui non si dovrà più dire “Tanto voi siete guerriere”, sarà un gran bel giorno… tanto più si è guerriere tanto più si ha il dovere di rivendicare la propria fragilità, perché solo la fragilità può far nascere la forza e viceversa.»
Da questa storia è nato il film breve La scelta, del regista Giuseppe Alessio Nuzzo, che è stato in concorso all’ultimo Festival del Cinema di Venezia.
«Quando Giuseppe Alessio Nuzzo mi fece questa proposta, la mia risposta fu negativa e decisa: ho sempre detestato l’autoreferenzialità, il difetto peggiore di un essere umano, ancor peggio se è un attore. E parlare del mio percorso, che mi ha visto arrivare alla fine, mi sembrava anche un po’ offensivo rispetto a chi invece il percorso lo ha cominciato ma non l’ha finito. Successivamente ho capito che non era tanto la malattia che doveva essere messa in primo piano ma ciò che la malattia ti lascia. La scelta non è il racconto del cancro ma di uno stato d’animo, comune a tutti i colpiti: la paura, il senso dell’ignoto, il rivivere il passato, tutto nella fatidica giornata dei controlli periodici, ed è così che la storia di uno diventa una rappresentazione universale. Alla fine ho dato ragione al regista!»
«Hai quattro sorelle e senti molto forte il legame con loro. Che sorella sei?»
«La sorella scapestrata, sempre in ritardo, che si dimentica le cose; quella scombinata, che ha avuto un figlio il giorno in cui ha compiuto sedici anni, che alla fine è diventato fratello di tutte, anche mio, e settimo figlio per mia madre. E sono sempre stata la pagliaccia, che per ciò che ho deciso di fare nella vita, si è poi rivelato un complimento! Però sono anche quella che riesce più delle altre a mettersi in ascolto di tutte loro, a osservare e a intuire prima ancora che vengano pronunciate parole.»
«Chi è Cristina Donadio oggi?»
«Facendo salvi i valori che non mutano, sto cambiando le priorità: sono mamma, sono nonna, e mio figlio e le mie nipoti vivono ai Caraibi. Oggi la mia priorità è fare in modo di vivere quanto più possibile con loro, perché mio figlio è anche il mio migliore amico e insieme ci divertiamo, parliamo, ci confidiamo. Ecco, adesso viene fuori Filumena Marturano…» e ride, autoironica, «…il bello dei figli è tenerli in braccio, consolarli quando hanno mal di pancia, io non l’ho fatto perché l’ha fatto mia madre per me, che mi diceva “Pensa a studiare, tu” ma in realtà non si fidava delle mie capacità materne… però mio figlio era a me, che confidava tutto. Anche ai miei nipoti non ho cambiato i pannolini perché mio figlio mi diceva “Tu pensa a recitare, mamma”, ma in realtà anche lui non si fidava! Adesso però gli ho estorto una promessa: quando sarò bisnonna, potrò finalmente fare un bagnetto al mio pronipotino, almeno uno!»
«Come vivi la tua città?»
«Napoli per me è imprescindibile! Ho avuto la fortuna di nascere e di crescere a Posillipo e mi porto il mare negli occhi e nelle orecchie, come sottofondo musicale dell’anima. Per dodici anni ho vissuto anche a Roma e fu lì che capii chiaramente che Napoli è la Gran Madre, che ti accoglie, anche nella forma del Vesuvio e del golfo che sembra che ti abbraccino; Roma invece è il Padre, il dovere, il lavoro. E quindi, dopo dodici anni, decisi di tornare dalla Madre, per recuperare quanto il mio fisico reclamava: il mare, la luce.»
«E come chiedo a tutti gli intervistati de “La Bellezza salverà Napoli”, qual è, secondo te, la cosa che più manca a Napoli per vivere bene o almeno meglio?»
«Forse la normalità. Mi piacerebbe una Napoli senza che tutto sia sempre esasperato: una normalità nella quotidianità, nei servizi, nella qualità delle strade. Dico banalità ma Napoli è bella, caotica, contraddittoria, fatta di bianco e di nero, di molto alto e di molto basso. Il problema è che noi tutti non la vediamo più, non ne abbiamo consapevolezza. Ci siamo abituati anche all’orrido, ma se invece risvegliassimo, ciascuno di noi, ciascuno dei nostri cinque sensi? Riusciremmo a far muovere i nostri sentimenti e vedremmo che Napoli non è fatta di geometrie appuntite ma è un tutto tondo: vicino al molto brutto ritroviamo il molto bello, e dovremmo riuscire a combattere, per questo molto bello, fuori e dentro di noi. Sono senza dubbio una privilegiata, ma questo non mi impedisce di essere sempre al fianco di chi privilegi non ne ha, e lo faccio da sorella, da madre, da figlia, da compagna, da concittadina, e chiunque ha cercato di coinvolgermi, mi ha sempre trovata.»
Dagli svariati trilli che annunciano tutti i messaggi whatsapp che arrivano sul suo cellulare, capisco che ci dobbiamo veramente accomiatare, perché la stanno aspettando per la presentazione di un libro. Insomma, il ritardo che ha avuto con me diventa il ritardo con loro…
«Sì, sono un’eterna ritardataria! Non ho il senso del tempo e, se potessi, passerei pigramente le giornate a casa con la mia gatta Ninetta, perché anche io sono un gatto. Vorrei per me ore intere solamente a stare. Il mio compagno racconta sempre che, al nostro primo appuntamento, mi ha attesa al Gambrinus per un’ora e mezza… ma sono certa che lo rifarebbe!»
Luciana Pennino